Quale nome dare agli interventi che utilizzano la fotografia come strumento terapeutico, riabilitativo, formativo o ludico?
Tendo ad utilizzare la parola Fototerapia indiscriminatamente, nonostante sia consapevole degli equivoci che questo termine possa suscitare.
La prima ambiguità si deve al fatto che la stessa parola viene impiegata in campi molto diversi. Nella medicina, in ambito dermatologico, la Foto-(luce) terapia-(trattamento) si riferisce allo sfruttamento delle proprietà della luce per il trattamento di patologie cutanee. Nella pediatria la fototerapia è adoperata per ridurre l’ittero nei neonati. Sembra che la luce naturale e artificiale modifichino la struttura molecolare della bilirubina, rendendola solubile in acqua ed eliminandola attraverso la bile e l’urina. In età adulta la fototerapia viene utilizzata per combattere l’acne e la psoriasi.
Sempre in ambito medico, la fototerapia viene impiegata nel trattamento della depressione stagionale e della depressione bipolare. Questa terapia sfrutta la connessione che esiste tra la retina e il nucleo soprachiasmatico, dove è situato l’orologio biologico dell’uomo. In questo caso la fototerapia viene chiamata anche terapia della luce, Light therapy e Cronoterapia.
In Psicologia, la fototerapia si riferisce all’utilizzo sistematico che un terapeuta debitamente istruito fa del materiale fotografico, all’interno del setting terapeutico, con la finalità di facilitare la crescita e cambiamenti positivi nei pensieri e sentimenti dei pazienti (Douglas Stewart, David Krauss)
In contesti riabilitativi, educativi, pedagogici, formativi, espressivi, della comunicazione e dei linguaggi non verbali, delle terapie espressive, dell’animazione, della mediazione, quando le attività non sono condotte da un terapeuta, non si dovrebbe chiamare fototerapia. In questi casi è stato proposto, tra tanti altri, il termine “Fotografia Terapeutica” (Judy Weiser).
Non sono molto convinto che questa distinzione sia opportuna.. La qualifica professionale di origine del conduttore o l’ambiente all’interno del quale un’attività o un progetto si realizza non sono sufficienti per definire una metodologia, una tecnica o una potenziale disciplina. Così facendo si corre il rischio di attribuire nomi diversi ad attività molto simili o, dall’altra parte, di chiamare con lo stesso nome attività molto diverse. La formazione di base di uno psicoterapeuta, uno psicologo, un formatore, un educatore, un pedagogo, un animatore, un assistente sociale, un arte terapeuta o di un mediatore culturale non fornisce automaticamente alla figura professionale la competenza per attuare un intervento di fototerapia. D’altra parte, tutte queste figure possono servirsi dei materiali fotografici all’interno dei loro ruoli professionali senza che i loro interventi si caratterizzino necessariamente come fototerapeutici. Sono del parere che per poter progettare ed attuare un intervento di fototerapia sia necessaria una formazione specifica che fornisca gli strumenti concettuali e pratici specifici che vanno oltre alla formazione di provenienza di una nuova figura professionale: il fototerapeuta.
Sono convinto che la fototerapia potrebbe diventare una disciplina autonoma, come accade nel caso della musicoterapia e della psicomotricità.
All’interno della musicoterapia, per esempio, ci sono tante scuole, con riferimenti teorici e metodologici molto differenziati tra di loro che si collocano in punti diversi in un continuum che va dalle proposte che enfatizzano l’aspetto creativo, espressivo musicale ad altri approcci più psicologici, terapeutici e riflessivi. Nonostante le differenze esistenti tra i vari metodi, rientrano tutti all’interno di una disciplina chiamata musicoterapia. In questo senso sarebbe forse più appropriato parlare di MusicoterapiE piuttosto che di MusicoterapiA.
Credo che lo stesso principio possa essere applicato alla fototerapia, o meglio, alle FototerapiE.
Prima di cercare una definizione di fototerapia che descriva il nostro metodo di intervento, sarebbe necessario compiere due operazioni preliminare. La prima è quella di concettualizzare la Fotografia attribuendo un significato preciso all'interno del contesto teorico al quale facciamo riferimento. La fotografia è un sistema e come tale opera una semplificazione della complessità del reale. Dunque possiamo dire che la fotografia è un sistema di rappresentazione visiva della realtà. La peculiarità di questa rappresentazione è che l'immagine viene catturata per mezzo di uno strumento: la macchina fotografica. La seconda operazione preliminare sarebbe quella di spostare l'enfasi dall'immagine fotografica all'agire fotografico.
A questo punto proporrei una definizione di fototerapia tra le tante forme di fototerapie possibili.
La Fototerapia è una disciplina che consiste nell’utilizzo consapevole dell’
Agire Fotografico con finalità formative, terapeutiche o riabilitative, applicato a se stessi o agli altri.
L’Agire Fotografico è l’insieme di azioni, attive e passive, in cui sono coinvolti i diversi soggetti che prendono parte ai momenti di produzione e di fruizione dell’immagine fotografica, come pure le relazioni che si vengono a creare tra i numerosi elementi che costituiscono questo processo.
I soggetti dell’Agire Fotografico sono le persone che fotografano, che sono fotografate, che partecipano alla costruzione della scena, che osservano sia lo scatto che l’immagine fotografica, che manipolano, propongono o che commentano una fotografia.
Gli elementi dell’Agire Fotografico possono essere:
- concettuali-situazionali: il tempo, lo spazio, il momento, la situazione, l’ambiente, il mondo esteriore, il mondo interiore;
- strumentali-materiali: la macchina fotografica, il rullino, la scheda di memoria, l’ingranditore, il computer, i software, la carta, l’album;
- emozionali: i sentimenti, le sensazioni, le emozioni, le idee, i pensieri, i ricordi;
- prodotti del processo: la stampa, la presentazione, il collage, l’organizzazione dell’album, i racconti e l’abbinamento ad altre forme espressive.
La fototerapia così concepita si inserisce sia nell’ambito della comunicazione e dei linguaggi non verbali che nell’ambito delle terapie espressive.
Questo modello fa riferimento ai concetti di formazione e di autoformazione, di multimedialità, ai modelli della musicoterapia, della psicomotricità e della performance, all’esercizio dell’autoconsapevolezza, dell’autobiografia, dell’autopesis, della scrittura creativa, esplorando le loro dimensioni individuali, di gruppo e storico-sociali.
Questa proposta metodologica è il risultato dell'incontro di una prassi individuale pluriennale dell'utilizzo della fotografia in contesti della salute mentale e dell'anzianità da una parte, con il lavoro di ricerca, di riflessione teorica su questa prassi e del suo approfondimento e ampliamento realizzati in ambito accademico all'interno del Master in Comunicazione e Linguaggi non Verbali dell'Università Ca' Foscari di Venezia.
Sono molto evidenti i contributi teorici del lavoro sull'agire comunicativo di Ivana Padoan nella chiave di lettura proposta dal Professor Umberto Margiotta. Sono presenti anche i contributi dai docenti del Master in generale e in particolar modo di Umberto Galimberti, Lino Vianello, Mario Paolini, Ezio Donato, Paolo Puppa, Sonia Compostella, Fiorino Tessaro, Alberto Caneva, Lucio Cortella, Marinella Sclavi. I riferimenti teorici dominanti sono quelli di Schön, Bateson, Mezirow, Knowles, Dewey, Demetrio, Donata Fabbri, Laura Formenti, Wim Wenders, Claudio Marra.
Per questa ragione ritengo che sarebbe opportuno individuare un termine per denominare questo modello metodologico, come succede per esempio con la parola “Fotolinguaggio” che designa uno specifico metodo psicodinamico di mediazione nei gruppi. Visto che il nostro modello si basa sul concetto dell’agire fotografico, potrebbe chiamarsi “FotoAzione” (dunque metodo FotoAttivo), oppure FotoComunicazione (metodo Fotocomunicativo) o ancora Fotorelazione (metodo Fotorelazionale). Forse si potrebbe trovare un’altra alternativa lessicale che fosse più azzeccata.
La Professoressa Ivana Padoan ha proposto che cogliessimo l’occasione del nostro incontro a Venezia anche per trovare un nome per il nostro metodo fototerapeutico. Cominciate a pensarci.
A proposito, il
22 Maggio del 1856 lo psichiatra e fotografo Hugh Welch Diamond presentò alla Royal Society of Medicine, a Londra, una relazione sulle potenzialità della fotografia come strumento terapeutico. Si tratta del primo documento di un intervento fototerapeutico ante litteram. Chi sa se circa 155 anni più tarde un altro passo importante non sia compiuto verso la creazione di una disciplina autonoma chiamata...
A voi, del Laboratorio di Fototerapia “Immagini per Raccontarsi”, la parola...
Ayres Marques Pinto